Pensieri liberi

Fare buon uso della stanchezza

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Nelle mie peregrinazioni libresche - il salto da un titolo a un altro, seguendo fili logici che a volte hanno più senso nella mia testa che altrove - mi sono imbattuta nell'opera di uno dei più interessanti filosofi contemporanei: Byung-Chul Han. (Come si pronuncia? E chi lo sa.) 

Non è un argomento dei più leggeri, la filosofia, però dà sempre degli spunti validi, quando i testi sono comprensibili.

Qui vorrei raccontarvi uno dei temi di questo breve saggio del 2010 che si intitola proprio La società della stanchezza, il quale mi ha colpito non solo per la semplicità di linguaggio con cui vengono espressi concetti complessi, ma anche per il grado di verità* con cui si avvicina a spiegare la realtà in cui viviamo.

*A parte l’incipit, devo ammetterlo. Il primo capitolo inizia dicendo che “Ogni epoca ha le sue malattie. Così, c’è stata un’epoca batterica, finita poi con l’invenzione degli antibiotici. Nonostante l’immensa paura di un’epidemia influenzale, oggi non viviamo in un’epoca virale”. Ecco. Tranne questo, vi assicuro che il saggio è più che valido.

- Siamo fatti della sostanza delle prestazioni, più che dei sogni 

Secondo la corrente filosofica ripresa da Byung-Chul Han, la società negli ultimi anni è passata dal modello disciplinare (la distribuzione degli individui gli uni in rapporto agli altri, con organizzazioni gerarchiche e funzioni ben definite) al modello prestazionale (la volontà di massimizzare la produzione, facendo uno sforzo per aumentare il livello di performance che genera infarti psichici, ansia da prestazione e sindrome del burnout).

L’uomo è diventato sovrano di se stesso, non c’è nulla al di sopra di lui che possa indicargli chi deve essere, ha innalzato la salute a divinità ed è, di fatto, un uomo che lavora soltanto, un animal laborans. I "soggetti da prestazione" si trovano in guerra con se stessi, poiché non hanno costrizioni imposte da un dominio esterno: è una libera costrizione quella che ci volge a massimizzare le performance, è un eccesso di lavoro che aumenta fino all’autosfruttamento.


Vittima e carnefice non sono più distinguibili. Questo carattere autoreferenziale genera una libertà paradossale che, in virtù delle strutture costrittive a essa connaturate, si rovescia in violenza. Le malattie psichiche della società della prestazione sono appunto le manifestazioni patologiche di questa libertà paradossale.


- Essere multitasking è una forma di regressione

Il secondo capitolo del saggio introduce un argomento estremamente interessante e attuale: l'attività cosiddetta multitasking come una regressione, e non come una forma di sviluppo delle nostre capacità.
Ecco cosa scrive Byung-Chul Han:

La tecnica del tempo e dell’attenzione definita multitasking non costituisce un progresso civilizzante. Il multitasking non è un’abilità di cui sarebbe capace soltanto l’uomo nella società del lavoro e dell’informazione tardo-moderna. Si tratta, piuttosto, di un regresso. Il multitasking infatti si trova già largamente diffuso tra gli animali in natura. È una tecnica dell’attenzione indispensabile per la sopravvivenza nell’habitat selvaggio.
Un animale intento a nutrirsi deve svolgere contemporaneamente altri compiti. […] Deve costantemente fare attenzione, mentre mangia, a non essere anche lui divorato. […] Così è incapace di qualsiasi immersione contemplativa.
[…] Gli sviluppi sociali più recenti avvicinano sempre più la società umana allo stato di natura. […] La preoccupazione di vivere bene, nella quale rientra anche una riuscita convivenza, cede sempre più il passo alla preoccupazione di sopravvivere."


In fondo, dobbiamo le attività culturali dell’umanità, tra cui rientra anche la filosofia, a una profonda attenzione contemplativa (spesso canalizzata dalla noia, intesa come un momento di stasi in cui possiamo concentrarci con profondità estrema poiché non abbiamo altri stimoli di cui preoccuparci). È la cultura stessa a presupporre un ambiente circostante in cui sia possibile un’attenzione profonda, e se questa viene sostituita da una forma di iperattenzione, ecco che perdiamo la possibilità di focalizzare le nostre risorse mentali per generare idee che siano davvero nuove. La frenesia moderna, secondo Byung-Chul Han, non crea nulla di nuovo, ma riproduce e accelera ciò che è già disponibile. Oggi, infatti, le storie originali sono chimere di gran lunga surclassate da reboot, remake, sequel e spin-off.

Piccolo inciso per chi ama il cinema: il quarto capitolo di Matrix (Resurrections) è di fatto un sequel che denuncia la politica cinematografica americana degli ultimi anni, principalmente focalizzata sullo spremere e capitalizzare le storie più forti e amate, di cui la stessa Matrix fa parte. È Hollywood la vera Matrix, che ci incatena con la visione di prodotti sempre uguali?

Di un risvolto di questa pratica del “rimettere mano” alle storie, ne ho parlato all’articolo C’era una volta il contesto, dove racconto di come la letteratura del passato gronda di presupposti non condivisibili, e gran parte dei retelling di oggi cercano di trasformare quelle opere secondo i valori odierni, col triste effetto di snaturarle.


- Cerchiamo di correre sempre di più o impariamo a danzare?

Tornando al libro, Byung-Chul Han propone un paragone illuminante: chi, mentre cammina, si annoia di quella condizione ma diventa irrequieto, cercherà un’accelerazione che lo porterà a correre. Una tipica massimizzazione della performance. Ma chi, al contrario, accetta di annoiarsi a camminare, lascia che la stanchezza di procedere in questa condizione prenda il sopravvento, potrà pensare a un movimento del tutto diverso, liberandosi dal principio di prestazione. E così potrà danzare.
La società legata al modello della prestazione può correre più veloce, ma quella che valorizza la stanchezza, la noia generata dalla visione della produzione come unico scopo della vita, quella società può danzare.


La stanchezza è un cedimento positivo, è un rifiuto nei confronti della performance continua che la società della prestazione richiede oggi, alle persone, per realizzare se stesse. È una conseguenza dell’inseguimento costante della produttività e può essere opprimente, è vero, ma è anche la forza che può sospendere l’ottusa iperattività e aiutarci a generare qualcosa di nuovo.


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