Non sono cattiva, è che mi disegnano così.
Jessica Rabbit nel film “Chi ha incastrato Roger Rabbit” (1988) lasciava già presagire la nascita del fenomeno che adesso sta spopolando nelle produzioni cinematografiche: il cattivismo.
Hannibal Lecter, Kill Bill, Megamind, Cattivissimo Me, Maleficent e il recentissimo Joker, solo per citare alcune pellicole famose. Cos’hanno in comune? Sono tutte incentrate sul villain, un cattivo che in origine proprio cattivo non è. Una figura in scala di grigi che lascia intendere quanto le sue azioni malvagie non siano frutto del male.
Se questi personaggi sono cattivi - o meglio, cattivisti - la colpa sembra sia della società: crudele e priva di scrupoli, che in qualche modo li ha costretti a passare al lato oscuro come estremo rimedio di difesa personale.
In fondo, Hannibal non ha aiutato Clarice Sterling ad acciuffare un pericoloso serial killer? La povera Beatrix Kiddo non ha forse dovuto affrontare un inferno di torture prima di giungere ad ammazzare Bill? Cattivissimo Me non è forse diventato un villain per colpa del suo rapporto difficile con la madre? E Maleficent, innamorata poi umiliata e tradita dal suo amato. Non è forse giustificato il suo odio verso gli esseri umani?
E infine Joker, l’apoteosi del cattivismo: l’antieroe, incarnazione di frustrazione e debolezza, manipolato da una madre snaturata e rigettato da una società feroce. Non ha forse diritto a difendersi abbracciando il male?
Il cattivismo nella realtà
Ma quanto ci fa bene pensare che il male sia sempre giustificabile? Per capirlo, trasportiamo questo gioco cattivista nella realtà.
Ennesimo caso di marito che ammazza la moglie: i primi commenti riferiscono di un “raptus d’amore” dovuto all’imminente separazione richiesta dalla vittima. Lui non voleva perderla, ha agito in un attimo di grande turba emotiva.
Una nonna sul bus non fa sedere una bambina nera al suo fianco: quante ne deve aver passate, quella donna anziana che vive a stento in una grande città e con una misera pensione sociale?
Un giovane viene arrestato dalla polizia per possesso di droga e non uscirà mai più dalla cella: una settimana dopo muore in circostanze misteriose. L’opinione pubblica dice che era un drogato e uno sbandato: le forze dell’ordine hanno fatto il proprio dovere.
Centinaia di persone annegano in mare, ma non sono italiane e vorrebbero venire qui a mettere in crisi la nostra economia. È colpa loro: non sono ben accetti e se tentano la traversata devono sapere che possono restarci secchi.
Una ragazza ha subito violenza fisica da un gruppo: la prima domanda degli inquirenti è stata “com’eri vestita?”.
La fiction cattivista genera pensieri mostruosi: nella realtà perde di pathos, diventa diseducativa, spinge il pensiero umano oltre i confini dell’etica e al limite della moralità.
Ci spinge a pensare che tutto sia giustificabile, perché anche i cattivi hanno una storia alle spalle e noi li giudichiamo su quella e non sulla base delle loro azioni.
Per quanto ancora dovremo giustificare azioni criminali di soggetti che hanno scelto consapevolmente cosa fare con la propria vita? Per quanto ancora ci racconteremo la storia che non è tutta colpa loro? Per quanto ancora offenderemo il ricordo delle vittime anche solo con un tacito assenso a questo scenario cattivista?
Ipnotizzati dalla spirale di antieroi villain degli ultimi anni, ci siamo completamente dimenticati l’insegnamento di Batman: “non è tanto chi sei, quanto quello che fai, che ti qualifica”.
Riconoscere che ciascuno di noi ha una storia fatta anche di soprusi e di cattiveria e non cedere alla banalità del male: è proprio lì che nascono gli eroi.